Non è stato facile comprendere la natura stilistica di Cemetery Beach, opera indubbiamente sci-fi, ma forte di una serie di contaminazioni estetiche e concettuali, che de facto la collocano in un limbo stilistico distinto da richiami retrofuturistici e persino da declinazioni dalla vaga sfumatura steampunk.

Concepito e scritto da Warren Ellis (Transmetropolitan, Authority, Ruins) e illustrato da Jason Howard (Super Dinosaurs, Scatterlands), Cemetery Beach (Saldapress 2019) racconta le vicende di Mike Blackburn, un uomo inviato su un remoto pianeta dove apparentemente si troverebbe un gruppo di esuli umani trasferitosi attorno agli anni venti del ventesimo secolo. Questi avrebbero volontariamente cessato ogni comunicazione con la Terra, sostenendo di aver così permesso l’instaurazione di una colonia prospera e utopica.

Ovviamente l’immagine che ci viene immediatamente presentata mostra tutt’altro che fattezze utopiche, bensì più prossime a quelle tipiche della distopia: una forma governativa di stampo autarchico domina su di una società suddivisa in caste, le cui caratteristiche vengono rappresentate attraverso l’ambiente alieno concepito dai due autori che sotto alcuni punti di vista richiama alla mente suggestioni che rimandano all’opera di Aldous Huxley. Sarà infatti attraverso il dialogo fra il nostro protagonista e la ribelle Grace, che apprenderemo le fattezze del palinsesto: un’enorme città concentrica, costituita da quattro sezioni circolari, il cui cardine è rappresentato dal vistoso palazzo del regnante della colonia, il grossolano Burrows.

La definizione più consona per descrivere questo concept urbano è “città nella città”. Una caratterizzazione certamente non originale, ma che esplicita il suo senso attraverso la sua stessa geometria: ogni anello ha la sua gente,  ciascuna di diversa estrazione. Una connotazione quindi sociologica, ma anche storica, che rievoca a grandi linee gli archetipi dell’evoluzione antropologica umana nel suo percorso urbanistico. Tutt’oggi nei grandi (ma anche nei piccoli) centri urbani osserviamo come i redditi più alti siano di norma concentrati al centro, laddove risiede il cuore egemonico della città.

In Cemetery Beach la questione è persino più estremizzata, mostrando come queste sotto-città siano più prossime all’idea (e alla forma) del ghetto, piuttosto che al quartiere. Un’idea che trova immediatamente conferma durante la fuga dei due protagonisti. Gli imprevisti saranno tanti quante le località che dovranno percorrere. Un classico schema di progressione che metterà i due in condizioni spesso estreme, e che fungeranno da espediente per mostrare al lettore la diversificazione di ogni anello: da esseri letteralmente mutati fino a forme abominevoli, a uomini relegati nei confini del proprio anello a causa di un embargo sottoscritto dallo stesso Burrows, come punizione e monito per aver tentato un’insurrezione. Un chiaro melting pot di forma ed estetica, indice di un’elevata variabilità concettuale.

La narrazione percorre, come accennavo appena sopra, una linea topica tradizionale, definita da una fuga frenetica e senza respiro da inseguitori di ogni sorta. La presunta purezza di questa colonia extramondo – purezza percepita unicamente da chi ne è al vertice – è la ragione precipua per cui i due protagonisti vengono braccati senza respiro: il timore che Mike il terrestre possa in qualche modo avvertire i suoi principali sulla Terra (o vecchiapatria, per parafrasare il fumetto), assume le fattezze di una paura catastrofica; d’altronde coloro che abbandonarono il pianeta natio decisero di occultare il tutto per non correre il rischio che la mano imperialista e colonialista umana potesse mettere le mani sul nuovo mondo e le sue risorse.

Eppure l’assenza di quella utopia tanto blasonata distoglie il lettore dalle problematiche interplanetarie, facendo focalizzare l’attenzione unicamente sulle vicissitudini dei due fuggiaschi. Questi sono tanto diversi esteticamente quanto simili moralmente: Mike è il ritratto del classico uomo sprezzante e dalla battuta pronta, poco incline ai moralismi e dal senso del dovere non sempre chiaro; Grace al contrario è una donna che definiremo tosta, non troppo laconica e dal grilletto facile. Lei rappresenta indubbiamente il lato più socialista dei due, essendo il sottoprodotto di una società vessata e perseguita. Ciononostante i due si combinato alla perfezione, colmando a vicenda le proprie mancanze e i propri limiti. Dove non arriva l’uno, arriva l’altra.

Nell’introduzione facevo riferimento a una difficile collocazione stilistica dell’opera. Questa problematica è data dal fatto che l’intero setting non è riconducibile all’interno dei canoni strettamente sci-fi a cui siamo abituati. Va infatti ricordato che costoro, gli esuli, abbandonarono la terra nel ventesimo secolo, e per questo motivo è logico dedurre che il loro percorso evolutivo abbia attraversato step diversi dalla loro controparte terrestre. Inoltre è chiaro che la loro tecnologia, pur essendo basata in origine su principi terrestri, si sia poi evoluta e adattata agli standard geografici che il nuovo mondo offriva in termini di risorse.

Questa particolarità è sottolineata innumerevoli volte, mostrando per esempio questa sorta di minerale, il percolato, nonché il più diffuso e importante propellente presente sul pianeta. Questo alimenta dei veicoli volanti, esteticamente molto simili a piccole navette, che nel corso dell’opera verremo abituati a riconoscere. Eppure, nonostante la mole di dettagli, è altresì chiaro che il progresso non sia stato particolarmente uniforme tra le diverse aree del pianeta, evidenziando nell’insieme un’arretratezza piuttosto evidente. Proprio questa definisce la profonda commistione stilistica che ne rende difficile l’interpretazione: un chiaro retrofuturismo meglio definito da veicoli e altra tecnologia, ma anche un lieve accenno steampunk per quanto concerne vestiario e architettura, non lontana quest’ultima da lievi, ma percepibili richiami vittoriani.

Il percorso grafico intrapreso da Jason Howard è il vero punto di forza di Cemetery Beach. Una meravigliosa estemporanea di stilemi e forme, tutte direttamente proporzionali all’alta varietà presente nella città. Ampia è la definizione visiva della platea di corpi e volti che appaiono nel corso dell’opera. Mike risulta il più economico, spesso illustrato senza troppi virtuosismi estetici, ma con un focus sul volto, dove la caratterizzazione assume un plus valore: borderline fra il canone classico e il cartoon – stilema che traspare maggiormente quando questo si lascia andare a espressioni più parodistiche.

Al contrario Grace è rappresentata in maniera decisamente più frizzante, quasi anarchica, con una capigliatura tanto assurda quanto simbolica. Se Grace incarna il ceto basso anche nel vestiario, dando sfogo a un’anima ribelle, Burrows è l’esatta incarnazione della nefandezza e dell’agiatezza. È rappresentato come un uomo glabro e schifosamente grasso, dotato di una bruttura che va ben oltre il limite della sopportazione. Una bruttezza spesso sottolineata da primi piani in cui Howard svela, nell’interezza di una vignetta, un volto condito da smorfie orride, praticamente ripugnanti. Altra nota di merito è dedicata alla rappresentazione degli assetti meccanizzati, come l’u-boot voltante che viene lanciato all’inseguimento dei due protagonisti. Questo si differenzia radicalmente dall’ascendente stilistico degli altri velivoli, mostrando un’anima profondamente pop, richiamando archetipi più prossimi al diesel punk, piuttosto che alla space opera.

Questo primo appuntamento con Cemetery Beach propone innumerevoli punti di riflessione, mostrando sia l’alta capacità immaginifica dell’autore britannico, sia la sua abilità nell’ideare e plasmare mondi ricchi di elementi originali. È importante considerare che coadiuvare una così ben nutrita mole di estetismi è spesso un suicidio editoriale; il passo, quello fra avanguardia e minestrone, è molto più corto di quel che si pensi. Fortunatamente, Ellis riesce ottimamente a redigere un racconto voluminoso, ma non eccessivamente, i cui innumerevoli spunti stilisti si affiancano armonicamente, dando ulteriore spessore a un’opera davvero meritevole.



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